Enza Spadoni e i robot che stringono la mano

Enza Spadoni e i robot che stringono la mano

12095115_10207878216139662_7117130156708123487_oBiorobotica, softrobot, industria 5.0 e internet of humans: sono i nuovi concetti che si affacciano nel mondo dell’innovazione e che descrivono nuove aree di sviluppo e di ricerca.


Enza Spadoni
, è technology transfer manager presso l’Istituto di Biorobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. Il suo lavoro la porta ogni giorno ad immergersi in queste novità.

 

Che cosa è la Biorobotica?

E’ stata innanzitutto una grande sfida intellettuale e non soltanto un campo applicativo. Mentre la Robotica è stata spesso innanzitutto associata all’ingegneria, la Biorobotica ha fuso in sé alcune caratteristiche oltre che dell’ingegneria anche della scienza. Potremmo in un certo senso definire la Biorobotica come l’ “unione di vita e macchina”. Originariamente l’idea alla base della Biorobotica risiedeva nell’intento di mettere insieme due settori diversi, che però procedevano in parallelo, ovvero Bioingegneria da una parte e Robotica dall’altra, creando un diverso approccio all’ingegneria stessa. Nel momento in cui queste si fusero, secondo l’ispirazione di Paolo Dario, leader indiscusso nel campo della Robotica a livello internazionale e direttore dell’Istituto in cui lavoro – appunto l’Istituto di BioRobotica -, si creò una nuova area scientifico-tecnologica grazie alla quale si cominciarono a progettare e realizzare sistemi robotici di ispirazione biologica. L’assunto di partenza era il presupposto per il quale la natura possiede già tutte le soluzioni ai problemi dell’uomo ed è fonte inesauribile di studio. Così, è stato proprio studiando un bruco che si è realizzato un colonoscopio non invasivo, che replica il movimento del piccolo animale per seguire il colon (che ha forma quadrilatera) senza deformarlo, come invece fa l’elemento rigido con cui si effettua la colonscopia tradizionale. L’osservazione della natura e del comportamento degli esseri viventi allarga il proprio ambito culturale e applicativo verso numerosi settori dell’ingegneria, verso le scienze di base e applicate (in particolare la Medicina, le Neuroscienze, l’Economia, le Bio/Nanotecnologie) e anche verso le discipline umanistiche (la Filosofia, la Psicologia, l’Etica). Con la Biorobotica tecnologia e scienza si fondono, da una parte nell’intento di generare nuove scoperte e quindi nuova conoscenza, contribuendo così al progresso scientifico, e dall’altra per utilizzare la scienza allo scopo di inventare e generare nuova tecnologia. I nostri studi sul polpo hanno ad esempio arricchito la conoscenza scientifica, con pubblicazioni su Nature, ma hanno anche al contempo consentito di mettere a punto nuove soluzioni per il detecting marino, per la perlustrazione dei fondali o persino per operazioni di soccorso, grazie alle proprietà dei tentacoli del polpo replicate tecnologicamente dopo averne compreso il meccanismo. Questo ha anche consentito di generare una nuova e innovativa area di ricerca; la “Soft” Robotics. Un grandissimo risultato che in un certo senso ci ha fatto “vincere” la sfida è stato, proprio nel corso di questo ultimo mese dell’anno, il riconoscimento prestigioso del gruppo editoriale Science con una nuova rivista scientifica, che si chiama Science Robotics, in cui per la prima volta Scienza e Robotica vengono associate, andando oltre il tradizionale concetto di tecnologia. Non a caso lo slogan della nuova rivista è “Science for Robotics and Robotics for Science”. Il mio direttore, Paolo Dario, è divenuto membro dell’Editorial Board.

Di cosa ti occupi di preciso?

12108881_10207878216219664_726778982686925941_nMi occupo di Trasferimento Tecnologico. In genere le università di ricerca basano il proprio lavoro su tre pillar fondamentali: Educazione, Ricerca e “Terza Missione”, che un po’ senza fantasia è quella aggiunta alle prime due tradizionali. Alla Terza Missione si dà oggi grande peso: secondo l’Anvur, che è l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca, essa è ciò che misura il livello di responsabilità sociale di una università. L’Anvur la definisce come la capacità degli atenei di mettere a disposizione della società, nelle sue varie articolazioni, i risultati della propria ricerca e specifiche attività di servizio. Si tratta di attività che producono prevalentemente beni pubblici. Ecco: il Trasferimento Tecnologico è lo strumento con cui operare il processo che consenta il “bene pubblico”. Significa trasferire e trasformare la conoscenza, prodotta dall’università, in altro: e non soltanto brevetti e spin off della ricerca, ma anche sensibilizzazione culturale all’innovazione e sviluppo locale. Io in particolare, che sono un’ingegnera prima che PhD, opero in processi di “ingegneria sociale”, quelli che contribuiscono alle dinamiche di progresso dei territori in cui si opera creando in logiche di design partecipativo “alleanze sulla conoscenza” in comunità guidate dall’innovazione tecnologica e da quella sociale. Noi abbiamo “reinventato” il Trasferimento Tecnologico: come una forza trainante e di stimolo ai cambiamenti che generano nuovi vantaggi, con la capacità di contribuire in modo determinante al dibattito pubblico e alle politiche dei decisori istituzionali, allo scopo di tracciare le traiettorie sociali, culturali e di crescita economica dei territori.

Credi che sia possibile una proiezione verso la fabbrica 5.0, oggi che già Industria 4.0 sembra un traguardo difficile?

Certo, tutto è sempre in perenne, possibile e continua evoluzione. Chi produce conoscenza può però orientare questa evoluzione in modo da rispondere alle esigenze sempre più pressanti della nostra società, in primis l’esigenza del lavoro. La fabbrica del futuro sarà molto lontana da un concetto di mera automazione industriale. Sarà ideata e concepita in modo da consentire l’accelerazione esponenziale del progresso umano grazie al supporto di tecnologie nel campo dell’economia digitale, del 3d printing e della robotica collaborativa, giusto per citare qualche esempio. Sempre più ci si riferirà all’Innovazione Sociale come a un elemento di guida nelle logiche di crescita e le industrie saranno essenzialmente concepite come Industrie di Servizi, mi piace pensare a “servizi per il benessere”, dove la produzione dei beni servirà specificamente a rispondere al miglioramento della qualità della vita di tutti, con benefici, appunto, per l’ambiente e per la persona. L’ex Governo Renzi ha lanciato il Piano Industria 4.0 che sostanzialmente incentivava le integrazioni tra sistema industriale con Robotica, Internet, “additive manufacturing” e altre tecnologie “abilitanti” per una “quarta rivoluzione industriale” automatizzata e interconnessa. Ma stiamo già progettando le fasi successive, in cui l’uomo avrà una centralità tanto maggiore quanto maggiore sarà l’evoluzione tecnologica stessa. Non a caso Paolo Dario ha lanciato il tema della “Bio-Automazione”.

Si parla di Internet of Things, possiamo sostituire Things con Humans?

L’interconnessione può essere una parola chiave del nostro secolo. Noi siamo sempre più “connessi” e “interconnessi”, anche le “cose” lo sono tra di loro e noi con loro. L’Internet of Things può essere definita come l’integrazione delle tecnologie e dei sistemi di comunicazione per il controllo e la gestione di dispositivi dotati di intelligenza, ovvero della capacità di memorizzare informazione per restituircela sotto forma di un compito o di una funzione per i quali sono stati progettati. Il trend è oggi quello dell’Internet of Humans, che in realtà si riferisce agli elementi “non cognitivi” dell’ambiente, per metterli in relazione allo scopo di farci svolgere azioni quotidiane in modalità digitale anche quando siamo “off-line”, ma nel cui termine “humans” voglio ravvisare una nuova attenzione all’uomo in generale, per un nuovo “rinascimento” e un nuovo “umanesimo” tecnologico.